venerdì 21 febbraio 2025
Indipendente "L’altro mistero di Ustica: una lunga serie di strane morti colpì chi sapeva qualcosa"
L’altro mistero di Ustica: una lunga serie di strane morti colpì chi sapeva qualcosa
20 Febbraio 2025 - 17:00
Si racconta che lo «strano incidente» in cui il tenente colonnello Sandro Marcucci morì come un tizzone umano, con gli arti inferiori e superiori amputati e il viso sfigurato, abbia avuto luogo cinque giorni dopo che questi si era presentato alla redazione di un quotidiano toscano per affidare ai giornalisti il suo dossier sulla strage di Ustica. La disgrazia, come l’ha archiviata in fretta la Procura, è capitata in un giorno di inverno di trent’anni fa a Campo Cecina sulle Alpi Apuane, alle spalle di Massa Carrara, dove le montagne corrono maestose e parallele al mare, coi loro crepacci, le gole, le aspre pendenze, gli abissi carsici e i marmi pregiati nella pancia. Un incidente aereo dovuto al troppo vento e a qualche manovra azzardata del pilota, hanno concluso i magistrati. Peccato che quel giorno, il 2 febbraio 1992, non tirasse una bava, come hanno certificato anche la torre di controllo di Massa Cinquale, i rapporti dei carabinieri e perfino diversi testimoni. E peccato che col colonnello Marcucci alla cloche, come dicevano colleghi e amici, «si torna sempre a casa».
Una lunga scia di decessi
Marcucci era un ufficiale dell’Aeronautica, un pilota provetto che quel giorno, a tre anni dal suo congedo dall’Aeronautica Militare, dopo essere stato arrestato e processato perché aveva cercato di difendere la propria dignità e perché probabilmente per qualcuno era un dito nell’occhio, volava in servizio antincendio con l’avvistatore Silvio Lorenzini, per conto della Regione Toscana. Hanno scritto che ha sbagliato a calcolare la quota, le distanze e la velocità guidando un Piper, un giocattolo per uno come lui, esperto di G-222 utilizzati, tra l’altro, per operazioni nella Guerra del Golfo e per evacuazioni nell’inferno di Mogadiscio, nella Somalia sarcofago di tanti orrori. Il suo «strano incidente» è la fotocopia di tutti i casi di morti sospette – tredici, per la cronaca – legate in qualche modo al 27 giugno 1980 e all’ultimo, tragico volo del DC-9 Itavia, matricola I-TIGI, nominativo radio IH-870. Tutti, tranne uno, coinvolgono dei militari. Una lunga e inquietante scia di decessi, che negli anni ha colpito in modo chirurgico e in circostanze mai del tutto chiarite chi in qualche modo, direttamente o indirettamente, ha avuto a che fare col mistero dell’aereo inghiottito dai radar nel Punto Condor, alla fine di un volo come tutti gli altri lungo l’aerovia Ambra 13, sul crinale di una notte d’estate che ha cambiato per sempre la percezione delle cose a tante persone riguardo al Paese in cui viviamo. Suicidi impiccati coi piedi appoggiati a terra o appesi alla maniglia di una porta, infarti improvvisi, investimenti da parte di ciclomotori, bizzarri incidenti stradali, aggressioni per fantomatiche rapine. Perfino un’altra strage, come il terribile rogo durante l’Airshow Flugtag delle Frecce Tricolori nella base NATO di Ramstein, nel 1988, in cui hanno perso la vita Ivo Nutarelli e Mario Naldini, i due piloti del 20° stormo di Grosseto che sul loro F104, la notte del 27 giugno 1980, hanno volato abbastanza vicino al DC-9 da vedere tutto e, forse, da rimanere coinvolti nei fatti. Erano stati convocati a Roma dal giudice Bucarelli ma il 28 agosto, qualche settimana prima di essere sentiti, sono rimasti uccisi insieme al capitano Giorgio Alessio in un drammatico e inspiegabile – per loro che avevano ripetuto quelle manovre centinaia di volte – incidente, costato la vita a 67 persone, oltre a causare 346 feriti. Un’altra Ustica, per le sue proporzioni, per la Germania che l’ha subita.
“Incidente” delle Frecce Tricolore a Ramstein, in cui persero la vita Ivo Nutarelli e Mario Naldini
Il “silenzio degli innocenti”
Il caso Marcucci è uno specchio emblematico di quello che è successo alle «morti sospette», definite tali dal giudice Rosario Priore in un apposito capitolo della sua colossale istruttoria-ordinanza. In quest’ultima, costruita in 10 anni, il magistrato inquirente ha posto le premesse per le sentenze penali che, nel tempo, hanno sancito le responsabilità delle istituzioni e degli esecutivi coinvolti per l’atroce fine di 81 persone nel Basso Tirreno, in uno scenario ormai dichiaratamente accertato – ma ancora mai del tutto chiarito – di guerra nei cieli italiani. Il sopralluogo nel bosco dove cadde il Piper pilotato da Marcucci non fu fatto immediatamente, come è prassi e regola in questi casi, ma solamente nei giorni successivi alla rimozione del cadavere e dei rottami dell’aereo. Nel frattempo la deposizione di Lorenzini, provato ma cosciente, fu raccolta in ospedale (dove è poi deceduto un mese dopo) in modo alquanto sbrigativo. Non fu eseguita autopsia sulla salma del tenente colonnello, non fu compiuto praticamente nessun accertamento se non un esame esterno. Nel 2012 l’Associazione Antimafia Rita Atria, da 30 anni alla ricerca della verità tra stragi e misteri italiani, ha presentato un dettagliato esposto alla Procura di Massa, che ha costretto i magistrati a riaprire il caso. I reperti ritrovati dai membri dell’associazione sul luogo del disastro, mai cercati da nessuno, hanno evidenziato tecnicamente l’ipotesi e il sospetto che qualcuno abbia imbottito il cruscotto del Piper di esplosivo al fosforo che è esploso in volo, provocando l’atroce morte del pilota e facendo precipitare l’aereo. L’associazione si è poi opposta a una seconda archiviazione, con una battaglia condotta con tenacia dall’avvocato Goffredo D’Antona, tanto che il GIP toscano, nel 2015, ha disposto nuove indagini e nuovi accertamenti, resi tuttavia impossibili dall’arco di tempo trascorso. Nel 2023, trent’anni dopo quel volo maledetto che cela ancora molti misteri, viene apposta la parola “fine” al caso, con la definitiva archiviazione del fascicolo. Marcucci, che nel 1980 (all’epoca della strage di Ustica) era dislocato presso la 46a Aerobrigata di Pisa, aveva definito il destino di coloro che erano a conoscenza dei fatti ma non erano riusciti a campare abbastanza per poterli raccontare (o tirarsene fuori) «il silenzio degli innocenti».
Il tenente colonnello Marcucci aveva raccolto documenti e informazioni (e, presumibilmente, anche riscontri) su uno dei punti chiave che riguardano quanto accadde a Ustica. Si tratta della vicenda del MIG libico ufficialmente trovato in località Timpa delle Magare, sulla Sila, il 19 luglio 1980, tre settimane dopo l’abbattimento del DC-9. Il mezzo sarebbe stato coinvolto nel teatro di guerra in cui è rimasto imprigionato l’aereo passeggeri Itavia: se è vero che l’obiettivo del missile che ha colpito il volo Itavia era in realtà proprio il caccia con le insegne di Tripoli, l’obiettivo sarebbe stato Gheddafi, che quella notte doveva volare a Varsavia.
Mario Dettori coi figli Barbara e Marco
I medici che hanno esaminato il cadavere del pilota, ritrovato tra i rottami nell’impervio territorio di Castelsilano, avevano in prima battuta evidenziato l’avanzato stato di decomposizione di quei resti umani. Successivamente cambiarono idea, per qualcuno dopo una “chiacchierata” a suon di bastonate prese all’aeroporto di Caselle, affermando che il decesso del militare era da far risalire a poco prima. Marcucci sosteneva che il MIG facesse parte di una gigantesca messinscena e che non fosse arrivato sui cieli italiani dalla Libia, come recitano ancora le versioni ufficiali, anche perché gli sarebbe mancata la necessaria autonomia di carburante, ma che quella tragica sera si fosse levato in cielo dalla base italiana di Pratica di Mare. Qui, per ironia del destino, finirono i resti del DC-9 prima di essere impacchettati e spediti al museo di Bologna. Marcucci era impegnato con Mario Ciancarella, capitano dell’Aeronautica radiato dal corpo nel 1983 con un decreto del presidente della Repubblica recante la firma falsa di Sandro Pertini, come è stato poi accertato con sentenza di Tribunale di Firenze, e leader del Movimento democratico, che voleva portare una ventata di democrazia nelle caserme. Nel 1976 fu convocato proprio da Pertini al Quirinale, insieme a Marcucci e Lino Totaro, come referenti di un “sindacato” che tra i militari evidentemente non era stato accolto a braccia aperte. Ciancarella, tra le altre cose, ha anche pagato con una violenza subita in carcere il suo impegno e le sue idee. Proprio quella loro attività di ascolto e di raccolta delle confidenze dei loro commilitoni, spesso le più cupe o nascoste, portò il maresciallo Mario Alberto Dettori a contattare Ciancarella pochi giorni dopo la sciagura del DC-9.
Il vaso di Pandora
Dettori era addetto presso il centro radar dell’Aeronautica di Poggio Ballone, all’epoca uno degli snodi della nostra difesa che nella vicenda ha avuto un ruolo primario – in quanto dagli schermi della base nel grossetano i militari hanno potuto seguire il percorso del volo Itavia insieme ai colleghi del centro di controllo di Ciampino, che lo hanno poi preso in consegna. Dettori era in servizio la notte di Ustica, in quello conosciuto come turno Delta. Tuttavia, negli elenchi dei presenti nella sala controllo la notte del 27 giugno e consegnati dall’Aeronautica ai carabinieri nel 1989 il suo nome non c’era: una dimenticanza che nessuno è riuscito mai a spiegare. Il tenente Antonio Di Giuseppe, presente in servizio la notte del 27 giugno, raccontò poi che non poteva non esserci anche Dettori, che insieme al collega Ogno aveva incarico di vice del master controller, ossia il responsabile della sala operativa, con funzioni di ufficiale verificatore. Per inciso, il master controller del 21° CRAM in servizio quella notte a Poggio Ballone era il capitano Maurizio Gari, sfortunatamente stroncato da infarto il 9 maggio 1981, nemmeno un anno dopo l’abbattimento del DC9. Pare che l’ufficiale si interessò molto alla vicenda del DC-9 Itavia e, probabilmente, era in possesso di informazioni molto rilevanti, utili a ricostruire dagli schermi radar quello che era successo all’aereo passeggeri. Così come il maresciallo Dettori, con lui in servizio: ciò che vide sullo schermo quella notte lo sconvolse al punto che rincasando a Grosseto, dove viveva con la moglie e tre figlie, rispose alla consorte che gli chiedeva del suo evidente turbamento: «è successo un casino, qui vanno tutti in galera».
Mario Dettori con la moglie Carla Pacifici
Pochi giorni dopo, prima di chiudersi in un mutismo di tomba sui fatti della sera del 27 giugno, Dettori disse alla cognata: «abbiamo sfiorato la terza guerra mondiale, è successo un casino. E siamo ancora in emergenza». Il ricordo di Carla Pacifici, la moglie, è eloquente: «Non ho mai creduto al suicidio di mio marito, certo nei suoi ultimi giorni era preoccupato e inquieto. La mattina dopo il fatto di Ustica tornò a casa verso le otto e mezza. Me lo vedo ancora lì, dove c’è il fornello, in piedi, zitto, scosso. Io gli dicevo: Albè, non ti togli la divisa? E lui niente, sembrava da un’altra parte». Nei giorni successivi, Dettori ha poi contattato Ciancarella per levarsi un peso troppo grosso dallo stomaco: «Capitano, ha sentito del casino di Ustica? Siamo stati noi». Secondo il maresciallo, cioè, l’abbattimento del DC-9 era stato causato da velivoli militari italiani. E poi, incalzando, «dopo quella putt***ta del MIG, controlli gli orari di atterraggio, i missili a testata inerte e quelli a guida radar». Con quelle parole confidate col terrore nella voce, «non posso dirle di più, mi fanno la pelle», disse Dettori, il maresciallo ha scoperchiato un vaso di Pandora che nessuno ha mai voluto davvero svuotare. Nemmeno il giudice Priore, che ha seguito altre piste confluite tutte nelle responsabilità di altri Stati nella vicenda e che ha definito Ciancarella un «portatore inconsapevole di notizie inquinanti». Dettori fu poi inviato in Francia per un periodo di addestramento, dal quale tornò visibilmente provato a livello psicologico. La moglie riferì che era completamente cambiato, soffriva di manie di persecuzione e rovistava in casa alla ricerca di microspie. Finì anche in cura da uno psichiatra, Ugo Corrieri, che il 23 marzo 1987 lo licenziò dopo un trattamento con diagnosi di «sindrome eretistico-ansiosa». Otto giorni dopo, il 31 marzo, Mario Alberto Dettori, sardo di Pattada, Provincia di Sassari, uscito la mattina per portare le figlie a scuola e per andare a prendere l’acqua in località Poggio della Mazza, non è più tornato a casa e ha fatto perdere le proprie tracce. Preoccupata, nel pomeriggio la moglie uscì a cercarlo insieme a un suo collega: lo trovarono in via delle Sante Marie, frazione Sassi Bianchi, nei pressi di Grosseto, impiccato a un albero – «un’alborella», l’unico particolare rilevante nel verbale dei carabinieri, che poco dopo un’ora dal ritrovamento avevano già chiuso il caso. Nessun testimone, nessuno vide o sentì nulla, anche se la strada venne descritta come fitta di passi carrabili e abitazioni rurali. I carabinieri mandarono un fonogramma alla Procura per escludere responsabilità di altre persone. Non venne effettuata l’autopsia ma una sorta di esame cadaverico: il medico legale dichiarò che Dettori era morto «per impiccagione con conseguente arresto cardiocircolatorio». Il magistrato prese atto del verbale dell’Arma e liquidò tutto in otto righe: per le autorità si trattò di suicidio, senza nessun dubbio.
Impiccamenti “atipici”
C’è un altro maresciallo, coinvolto in questa storia, che ha affrontato un destino molto simile, come nelle Vite parallele di Plutarco. Si tratta di Franco Parisi, controllore presso la sala operativa del 32° CRAM di Otranto, situato presso San Nicola in Casole, Provincia di Lecce e competente per il basso Adriatico. Era di turno la mattina del 18 luglio 1980, quando il MIG, stando alle fonti ufficiali, sarebbe «caduto» a Castelsilano. Parisi fu sentito da Priore nel settembre 1995 e nella sua deposizione furono ravvisate alcune contraddizioni. Successivamente, fu avvicinato e minacciato. Priore lo citò di nuovo a comparire come testimone dei fatti il 10 gennaio 1996, ma Parisi non arrivò mai all’appuntamento. Il 21 dicembre 1995 a Erchie Piccolo, Comune di Lizzanello, nel leccese, la signora Ornella De Luca avvisò il 113 che il suo vicino di casa si era impiccato. Quando arrivarono polizia e medici legali, appeso a un pino trovarono il corpo senza vita del maresciallo di terza classe Franco Parisi, 47 anni: uno sgabello rovesciato, il suo corpo che toccava il suolo coi piedi. Anche in questo caso i magistrati chiesero l’archiviazione per suicidio, ma nel 1997 il GIP del Tribunale di Lecce si oppose e chiese nuovi accertamenti, per nulla convinto dalle modalità di questo presunto gesto estremo. I medici legali di Bari a cui fu affidata la perizia non poterono non annotare «l’impiccamento atipico incompleto: l’aggettivo atipico si riferisce, in questo caso, alla posizione del pieno dell’ansa del nodo scorsoio che, nel Parisi, era sito lateralmente a sinistra. L’impiccamento era incompleto perché il cadavere poggiava con i piedi al suolo».
Le vicissitudini di Dettori e Parisi, nella lunghissima inchiesta-ordinanza condotta dal giudice istruttore Priore, sono accomunate da diverse analogie. Entrambi marescialli, entrambi con funzioni cruciali e molto sensibili durante i fatti, entrambi molto provati a livello psicologico nei giorni e nei mesi successivi. Entrambi suicidati, secondo la versione ufficiale. «Venuti a conoscenza di fatti diversi dalle ricostruzioni ufficiali – scrive il giudice Priore nel capitolo relativo alle loro morti sospette – rivelano la loro conoscenza in ambiti strettissimi, ma non al punto da non essere percepita da ambienti che li stringono od osteggiano anche in maniera pesante. E così ne restano soffocati».
[di Salvatore Maria Righi]
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